PAUL WATZLAWICH
ISTRUZIONI PER RENDERSI INFELICI CON IL PASSATO
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Si dice che il tempo guarisca ferite e dolori. Questo può essere vero, ma non dobbiamo scoraggiarci perché è senz’altro possibile proteggersi da questo effetto del tempo e fare del passato una fonte di infelicità. Fin dai tempi più remoti , abbiamo a tale scopo almeno quattro meccanismi a disposizione.
L’esaltazione del passato.
Anche il principiante può, con un po’ di abilità, riuscire a vedere il proprio passato attraverso un filtro che lasci trasparire il buono e il bello nella luce più trasfigurante.
Solo chi non riesce a mettere in opera questo espediente ricorda la propria pubertà (per non parlare dell’infanzia) con crudo realismo, come periodo dell’insicurezza, del dolore del mondo e dell’ansia per il futuro, e non rimpiange di quei lunghi anni neppure un solo giorno.
Al più dotato aspirante all’infelicità, invece, non dovrebbe essere difficile riconoscere nella propria giovinezza l’età dell’oro irrimediabilmente perduta, rendendosi così accessibile un’inesauribile riserva di tristezza.
Questo è naturalmente solo un esempio. Un altro potrebbe essere la profonda tristezza per la rottura di una relazione d’amore. Resistete alla ragione, alla memoria e ai vostri migliori amici, che con le loro parole vi vogliono far credere che la relazione fosse da tempo mortalmente malata, e che troppo spesso vi siete chiesti in qual modo avreste potuto fuggire da quell’inferno.
Non credete assolutamente che la separazione sia il male di gran lunga minore.
Persuadetevi instancabilmente che questa volta un serio e leale "ricominciare da capo" porterà a un risultato magnifico (non sarà così). Fatevi trascinare da una considerazione eminentemente logica: se la perdita dell’essere amato addolora così atrocemente, quale gioia sarà dunque il ritrovarsi. Isolatevi dai vostri simili, rimanete in casa, nelle immediate vicinanze del telefono, pronti per l’eventuale sopraggiungere del momento felice.
Se l’attesa dovesse essere per voi troppo lunga, allora una millenaria esperienza umana vi consiglia di riallacciare una identica relazione con un partner del tutto simile al precedente, per quanto diversa possa sembrare all’inizio.
La moglie di Lot.
Un ulteriore vantaggio della fedeltà al passato consiste nel fatto che in questo modo non rimane il tempo di dedicarsi al presente. Rivolgendosi al presente, potrebbe a ogni istante succedere che la visuale si sposti accidentalmente di 90 o di 180 gradi, giungendo in tal modo alla constatazione che il presente ha da offrire non solo ulteriore infelicità, bensì anche occasionale non-infelicità; per non parlare poi delle molte specie di novità che potrebbero scuotere quel pessimismo a cui ci siamo votati . In tal senso richiamiamo alla memoria con ammirazione la moglie di Lot, nostra maestra biblica. Ricordate? L’angelo disse a Lot e alla sua famiglia: "Salvati , non guardarti indietro e fuggi velocemente, affinché tu non abbia a morire." Sua moglie invece guardò indietro e divenne una statua di sale (Gen., XIX, 17 e 26).
Il fatale bicchiere di birra.
In un suo fi lm, The Fatal Glass of Beer, uno dei vecchi maestri del cinema comico americano, W.C. Fields, mostra l’orribile e inarrestabile decadimento di un giovane che non sa resistere alla tentazione di bere il suo primo bicchiere di birra. Non può passare inosservato l’indice alzato in segno di ammonimento (anche se leggermente tremante per il riso soffocato): breve è il gesto, lungo il rimorso. E quanto è lungo! (Vengono in mente un’altra biblica progenitrice, Eva, e quella certa mela…) Questa fatalità ha il suo incontestabile tornaconto, che finora è stato pudicamente nascosto ma che nella nostra illuminata epoca non può più venire taciuto a lungo. Pentimento o no, per noi è molto più importante il fatto che le irreparabili conseguenze del primo bicchiere di birra non solo non giustificano gli ulteriori bicchieri, ma li rendono ineluttabili. Detto altrimenti: d’accordo, ci si sente colpevoli, ma lo si sarebbe dovuto sapere allora, adesso è troppo tardi. Allora si commise un peccato, adesso si è vittima del proprio sbaglio.
Questa è una maniera forse passabile, ma certamente non ideale per realizzare la propria infelicità. Cerchiamo quindi di perfezionarla. E se non c’entrassimo niente con quel fatto? Se nessuno potesse accusarci di complicità? Nessun dubbio che allora saremmo veramente vittime, e ci provi pure qualcuno a scuotere questo nostro status oppure ad attendere da noi che facciamo qualcosa contro di esso. Quello che ci cagionarono Dio, mondo, destino, natura, cromosomi e ormoni, società, genitori, parenti, polizia, insegnanti, medici, capi o soprattutto amici, è talmente grave che la minima insinuazione circa il poter forse fare qualcosa contro tale condizione è già di per sé un’offesa. E inoltre manca di scientificità. Qualsiasi testo di psicologia ci dice quanto la personalità sia determinata dai fatti accaduti nel passato, soprattutto nella prima infanzia. Del resto, ogni bambino sa che ogni cosa accaduta lo è per sempre. (…) Nei rari casi in cui, senza il nostro intervento, il libero corso delle cose ci ricompensa del trauma subito o del rifiuto del passato, e ciò che desideriamo ci cade gratuitamente tra le braccia, la persona esperta non si perde d’animo. La formula "Ora è troppo tardi, ora non lo voglio più" le permette di restarsene inaccessibile nelle isolate stanze della sua indignazione e di impedire che le ferite inferte dal passato giungano a guarigione con delle zelanti leccate. Ma il non plus ultra, che indubbiamente presuppone la genialità, consiste nel rendere responsabile il passato anche del bene, a tutto
vantaggio della presente infelicità. Esempio ineguagliabile di questa variazione sul tema è la storica frase pronunciata, a quanto pare, da un lavoratore del porto di Venezia, quando gli Asburgo lasciarono questa città: "Maledetti gli Austriaci, che ci hanno insegnato a mangiare tre volte al giorno! "
La chiave perduta, ovvero "ancora lo stesso".
Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa ha perduto. "La mia chiave," risponde l’uomo, e si mettono a cercare tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: "No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio." Assurdo? Se è così che pensate, state cercando anche voi nel luogo sbagliato.
Perché il vantaggio, in questo caso, è che una tale ricerca non porta a niente, se non ancora allo stesso, e cioè al niente.
Dietro questa semplice espressione si cela una delle più efficaci e funzionali ricette per le catastrofi , che sia apparsa sul nostro pianeta in milioni di anni e che ha portato all’estinzione intere specie. Si tratta di un gioco col passato conosciuto dai nostri animaleschi antenati fin dal quinto giorno della creazione.
Al contrario del precedente meccanismo di attribuzione di causa e colpa alla force majeure degli eventi trascorsi, questo quarto gioco si fonda sull’ostinata fedeltà nei confronti di adattamenti e soluzioni che in un imprecisabile passato si rivelarono sufficienti, efficaci o forse perfino gli unici possibili. Per ciò che riguarda ogni siffatto adattamento a situazioni determinate, il problema è che queste ultime mutano col passare del tempo. Ed è proprio qui che interviene questo gioco.
Da un lato è chiaro che nessun essere vivente può rapportarsi al mondo circostante privo di un qualsiasi progetto (vale a dire: oggi così, domani in altro modo).
La vitale necessità dell’adattamento conduce inevitabilmente alla formazione di precisi modelli di comportamento, il cui scopo ideale sarebbe una sopravvivenza quanto più possibile efficiente e priva di sofferenze. Per delle cause non ancora chiarite dagli studiosi del comportamento, tanto gli animali quanto gli uomini tendono d’altro lato a considerare questi adattamenti , che si rivelarono all’occasione i migliori possibili, come gli unici eternamente praticabili. Questo fatto porta a una duplice cecità: in primo luogo, appunto, l’adattamento in questi one con il passare del tempo non è più il migliore possibile; in secondo luogo, accanto a esso esiste sempre tutta una serie di altre soluzioni, o almeno esiste ora. A sua volta questa doppia cecità ha due conseguenze: da un lato, non si utilizza la soluzione giusta e si complica la situazione; dall’altro, sotto la crescente pressione del disagio si giunge all’unica conclusione apparentemente logica, cioè di non essersi dati sufficientemente da fare. Si continua a utilizzare la stessa "soluzione", col solo risultato di incrementare il disagio. L’importanza che questo meccanismo possiede in relazione al nostro argomento è evidente. Esso può essere sfruttato anche da principianti , senza che sia necessaria una formazione specifica; è anzi talmente diffuso da offrire notevoli redditi , fin dai tempi di Freud, a generazioni di specialisti, dai quali tuttavia esso non è chiamato "La ricetta dell’ancora lo stesso", bensì nevrosi. Non è comunque il nome ad avere importanza, ma l’effetto. E questo è garanti to, almeno finché l’aspirante all’infelicità si attiene a due semplici regole. Primo: esiste un’unica soluzione possibile, consentita, ragionevole, sensata e logica del problema, e se questi sforzi non hanno ancora avuto successo, questo prova soltanto che non ci si è ancora sufficientemente applicati a essa. Secondo: la supposizione che esista solo quest’unica soluzione non può mai in quanto tale essere messa in discussione; prove di verifica possono essere fatte solo relativamente alla sua applicazione.